Amici della Musica di Cagliari


Concorso Internazionale di pianoforte Ennio Porrino
Stagione concertistica



Elio Martusciello


Dell’interpretazione di una musica su supporto

In questa occasione mi limiterò a qualche riflessione sulla questione dell’interpretazione di una musica su supporto concepita stereofonicamente e diffusa attraverso un sistema che preveda più di due altoparlanti. In realtà, come scrive il compositore francese Christian Clozier, una musica stereofonica diffusa attraverso un sistema stereofonico non necessita affatto d’interpretazione, così come, in un certo senso, una musica quadrifonica diffusa attraverso un sistema quadrifonico e così via. Non intendo qui affrontare tutte le altre possibilità che prevedono un’asimmetria, una non coincidenza, tra il numero di canali presenti all’origine durante la realizzazione dell’opera e i sistemi di diffusione. La limitazione che mi sono imposto, cioè quella di restringere il campo fin troppo vasto e complesso dell’interpretazione di una musica elettroacustica multicanale al solo campo della musica stereofonica, è dovuta non solo alla quantità non sufficiente di tempo e di spazio qui disponibili, ma principalmente al fatto che questa condizione è in assoluto quella che si presenta il più delle volte all’interprete di un’orchestra di diffusori (acousmaticien). La prima constatazione da farsi è che spesso una musica su supporto concepita stereofonicamente, non nasce con la previsione di una sua diffusione in concerto su di un sistema di più altoparlanti (come ammette lo stesso compositore francese Pierre Boeswillwald: “La gran maggioranza dei compositori di musica elettroacustica non provano particolare interesse per la diffusione”); piutmain, affermerei che ⁄ la stragrande maggioranza delle musiche su supporto sono concepite unicamente per il mercato discografico (la catena tecnologica che prevede la maggior parte delle volte come anello finale i sistemi stereofonici casalinghi di alta fedeltà, compreso l’ascolto attraverso le cuffie). Spesso i loro autori sono totalmente all’oscuro della possibilità che tale musica possa essere diffusa in un acousmonium, attraverso un sistema di multidiffusione (talvolta si parla anche di “orchestra di altoparlanti”, ma giustamente Christian Clozier respinge quest’ultima definizione poiché questa nuova liuteria tecnologica è da considerarsi principalmente come “generatore di spazio” e dunque, la sua finalità è notevolmente diversa da quella dell’orchestra tradizionale). Partendo da questa constatazione, che mi sembra in assoluto quella che maggiormente incide nella realtà della musica elettroacustica attuale e cioè il formato stereofonico, è a mio avviso un po’ idealistico ed elitario considerare, come fa ad esempio la compositrice francese Françoise Barrière, la stereofonia come una sorta di bozza incompleta della musica su supporto, che vede la sua realizzazione definitiva solo in un sistema di multidiffusione (il compositore svizzero Rainer Boesch parla addirittura di “partitura elettroacustica”). Françosie Barrière considera la diffusione in una sala da concerto come “la prova di verità”. Da “crisalide” l’opera diviene “farfalla alle orecchie del pubblico che se n’appropria: se questa è un’opera riuscita, essa nutre il piacere estetico e contribuisce ad elargire l’esperienza sensibile del mondo”. Evidentemente, per quanto suggestiva l’immagine, in questo modo si vanifica quella che Michel Chion considera una delle conquiste fondamentali dell’art des sons fixés, cioè il superamento del dualismo compositore/interprete. Secondo questa prospettiva il compositore, attraverso l’art des sons fixés, è da considerarsi simile alla figura dello scultore, del fotografo, del pittore, che realizza la propria opera senza alcun bisogno di intermediari. Personalmente credo che non facciano bene alla musica per supporto queste radicalizzazioni, e che se è vero da un lato che la musica elettroacustica non può essere ridotta necessariamente ad uno spazio frontale, il piano classico di demarcazione tipico dell’orchestra, del teatro, rappresentato dalla stereofonia (in realtà si tratta di uno “specchio”, perché il pubblico è posizionato sempre in una condizione di rovesciamento del lato destro e sinistro rispetto all’attore “sorgente-sonora”), dall’altro è anche vero l’opposto, cioè che la musica elettroacustica non ha uno spazio proprio (in quanto “suoni senza mondo”) e dunque, la diffusione che prevede l’utilizzo di più altoparlanti non può aspirare ad essere considerata come unico vero ambito spaziale della musica elettroacustica. Io considererei l’interpretazione e la multidiffusione di questo tipo di musica solo una possibilità tra le tante, senza dover necessariamente ricorrere a questioni di verità ontologica. Per concludere, sinteticamente, vorrei esporre anche la mia preferenza per la dimensione performativa del lavoro dell’interprete in multidiffusione. La mia esperienza di improvvisatore e la mia poca attitudine verso tutte le forme di perfezionismo e di ricerca di verità assoluta, mi portano a non fissare una volta per tutte un progetto di multidiffusione (partiture di diffusione, software di distribuzione audio, ecc.). Preferisco le scelte che l’interprete fa di volta in volta attraverso l’intuito, la memoria, il rapporto in tempo reale con lo spazio ed il pubblico, nel tentativo di accedere a quell’autenticità segreta che si nasconde in quel tempo “intemporale” che così profondamente caratterizza la pratica dell’improvvisazione. In realtà, a differenza del solido rituale classico che prevede l’opposizione frontale tra il pubblico e l’orchestra (così come nel teatro con gli attori o nel cinema con lo schermo), la dimensione immersiva e circolare (semisferica) auspicata dall’ascolto in multidiffusione stenta a trovare ancora le sue coordinate e il suo assetto definitivo. Anche tutte le problematiche relative all’esperienza gesto-motoria del suono e alla dimensione visiva, necessitano ancora di una soluzione plausibile. Risulta difficile, specialmente in un contesto pubblico, concentrarsi sul suono mentre si vedono cose che nulla hanno a che fare con esso. Anche il buio in sala utilizzato in molti contesti pubblici di multidiffusione per ovviare a questo problema, risulta spesso essere insufficiente e inappropriato. Questo tentativo di esclusione di un senso, come quello della vista, per aumentare la concentrazione sul suono, in un contesto pubblico spesso ottiene il risultato opposto. Ogni piccolo rumore o bagliore rafforza, accentua o addirittura moltiplica il fattore di deconcentrazione. Credo (avanzo un’ipotesi) che una possibile soluzione possa essere cercata nella direzione di quella che il filosofo Mario Costa chiama la “sinestesia tecnologica”: un luogo di ascolto pubblico in multidiffusione dove immagini neutre, proiettate, tecno-sinestesiche, rilevano, attraverso il loro movimento e il loro colore, fattori implicati nel dato sonoro (così come un direttore d’orchestra o un musicista rafforza e sottolinea, con gesti funzionali, eventi presenti nella performance musicale). Non dunque un’interpretazione visivo-narrativa soggettiva, ma un algoritmo che corrisponda visivamente, dato su dato, nella maniera più oggettiva possibile alle informazioni audio (le principali, le più caratterizzanti, come la dinamica, la risposta in frequenza, ecc.).

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