id lab Launeddas – articolo Fiore italiano

SarDegna di attenzioni sonore \ IdentityLAB

Launeddas*

“macchine inutili” in musica,
ovvero la composizione
come mestiere

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Oggetti da considerare come macchine perché fatti di varie
parti che si muovono, collegate tra loro […] inutili perché
non producono, come le altre macchine, beni di consumo
materiale, non eliminano manodopera, non fanno aumentare
il capitale. Alcuni sostenevano che erano utilissime, invece,
perché producono beni di consumo spirituale (immagini, senso
estetico, educazione del gusto, informazioni cinetiche ecc.).
Bruno Munari, Arte come mestiere, Laterza, Bari, 1966

Il manifesto nel quale l’artista e designer milanese contrasta il mito dell’artista-divo, seppur elaborato pensando alle arti figurative e al design si adatta anche alla musica di Lucio Garau (Cagliari 1959), da quarant’anni pianista, insegnante di pianoforte, poi compositore, che si è rivolto allo studio di quest’ultima disciplina per rispondere
all’esigenza di conoscere più a fondo e poter meglio illustrare i meccanismi che muovono il suo repertorio preferito: Johann Sebastian Bach, Fryderick Chopin, Wolfgang Amadé Mozart, Domenico Scarlatti sono gli autori che cita più spesso. Ha frequentato la classe di Franco Oppo (1935-2016) al Conservatorio di Cagliari[1], dove negli anni ’80
le tecniche compositive venivano analizzate e ricostruite – come si fa abitualmente nelle discipline figurative che praticano il rilievo e il calco dei loro autori classici – per tentare di comprenderne i nessi senza il distacco reverenziale di chi vede nella musica del passato soltanto il profilo monumentale ma coltivandone le diverse pratiche
con un’attitudine artigianale che trae le proprie gratificazioni dal fare le cose per bene prima ancora che dal venire riconosciuti pubblicamente come artisti.

Inizialmente attratto dall’analisi musicale, Garau si è rivolto anche all’attività creativa spinto non tanto dalle dinamiche accademiche quanto da una fortuita opportunità: infatti nel 1987 Oppo ottenne un finanziamento dell’Istituto Etnografico Sardo di Nuoro per una ricerca sul campo dedicata alle launeddas (strumento polifonico a fiato della tradizione sarda)[2], con una campagna d’interviste e registrazioni nelle zone di pertinenza di quegli strumenti (il Sarrabus a nord-ovest di Cagliari e la zona dello stagno di Cabras vicina ad Oristano), nella quale Garau venne coinvolto, scoprendo una prassi e un repertorio di tradizione orale oggi molto noti come vertice di complessità e artificio dell’etnofonia italiana ma, anche in Sardegna, fino agli anni ’90 inoltrati, sofferenti l’ostracismo degli ambienti intellettuali. La “rivelazione” delle launeddas e l’esempio didattico ed etico di Oppo sono alla base del percorso compositivo di Garau che, sin dall’inizio, tende a indagare elementi ancestrali – soprattutto l’elemento temporale – utilizzando il contrappunto come una specie di “macchina” onnipotente, con tecniche che provengono dal repertorio più antico (da Guillaume de Machaut a Johann Sebastian Bach) ma anche da esempi novecenteschi e con le possibilità dell’acusmatica e del live electronics. Il nome che ama citare più spesso è quello di Conlon Nancarrow (1912-1997)[3], compositore statunitense-messicano non appartenente al “canone” più convenzionale della nuova musica, che coniugava un metodo sistematico e formulare con elementi vernacolari e interventi tecnologici; altro suo frequente termine di paragone, alla ricerca di un Novecento di autentico “mestiere”, è György Ligeti (1923- 2006), a sua volta sensibile verso l’eredità etnica, e al quale riconosce anche di aver compreso i limiti tipici dell’avanguardia che lo circondava e di una critica più a suo agio con personalità meno ambivalenti e “mainstream” come quelle di Karlheinz Stockhausen o Luciano Berio. A partire da questi elementi Garau ha continuato a coltivare la sua figura di intellettuale, musicista militante (come direttore artistico degli Amici
della musica di Cagliari e fondatore del Minim Ensemble) e compositore con un centinaio di opere per diversi organici dove però la destinazione strumentale è spesso una suggestione più che una prescrizione
tassativa, giacché l’attenzione è sulle note e sulle durate ancor prima che sui timbri.

Canoni op. 5 (1992) è un brano «per un musicista che suona flauto dolce contralto, basso e tenore e dispositivo di ritardo» che interpreti il proprio suono come ricettore anche di codici genetici etnici, quindi memore delle launeddas ma anche del sullittu (zufolo della tradizione sarda in alcune zone detto anche pipiolu o pipaiolu) o del friscalettu (zufolo tipico della Sicilia, regione adottiva di Garau che vi abita da quando nel 2002 ha cominciato a insegnare al Conservatorio di Palermo);
Contrappunto op. 57 (2009) è «per sassofono tenore e live electronics» ma può essere eseguito anche al clarinetto o altri strumenti a fiato;
Flauneddasax (2017) è per flauto dolce, launeddas e sassofono.
Queste tre composizioni compongono un realistico ritratto del loro autore, con la terza a fare da “introduzione a ritroso” delle due precedenti: un profilo che deliberatamente diffida delle sirene del “talento”, dell’“inventiva” e
dell’espressione individualista, da lui considerati stereotipi mistificanti, confidando maggiormente sull’estetica di meccanismi logici, storici e mnemonici, in un isolato panorama sardo nel quale Aristotele incontra Aby Warburg e Pan incontra Bach. Canoni è un ascolto di circa venti minuti che sin dall’esordio, nonostante le difficoltà e i costi realizzativi legati alla parte elettronica, ha trovato una salda collocazione in repertorio[4]. È l’autore stesso, in una conversazione privata, a descriverne la storia esecutiva:

Nel 1992, tutti facevano o volevano fare live electronics, prassi che veniva considerata “di frontiera” dopo le esperienze di Luigi Nono e di Pierre Boulez, ma non era disponibile ancora un calcolatore che potesse fare 7 ritardi di 90 secondi (a 44kz, con 16 bit di dinamica, occorrono circa 54mb di ram, dotazione che all’epoca non avevamo). Proprio quell’anno fu organizzato a Cagliari un seminario dell’Ircam nel quale mi consigliarono di ridurre il ritardo per ovviare ai limiti della tecnologia; tuttavia continuavo a sostenere che il canone non andasse innescato subito e optai, diversamente dal conformismo di quei tempi (quando si amava disporre ed esporre elaboratori monumentali), per una soluzione analogica. Canoni è stato poi eseguito diverse volte, seppur con qualche imprevisto: nel 1996 fu programmato ( e non eseguito perché non riuscirono a realizzare la parte elettronica) in un grande festival ad Amsterdam, nel 1997 l’ho eseguito con una workstation dedicata[5], nel 1999 l’ho fatto con un personal computer Apple e il software Max/Msp, dopodiché è stato eseguito molte altre volte e con sistemi diversi: ad oggi ho contato più di 100 esecuzioni, sia in sede concertistica sia didattica in occasione di diplomi presso vari conservatori europei.

Nel brano sono frequenti gli intervalli di VII e IX il cui trattamento elude la dissonanza creando invece uno “spazio sonoro” atemporale nel quale l’organum di Magister Perotinus e la minimal music, il contrappunto canonico e le durate dilatate di Morton Feldman si fondono con una matrice altrettanto cangiante, che infatti può essere etnica suonando le launeddas o lo zufolo, ma anche di un ancestrale classicismo suonando il flauto.

Contrappunto – la cui storia esecutiva è strettamente legata al virtuosismo di Gaetano Costa (1963, solista più volte impegnato in prime esecuzioni e membro del Minim Ensemble) – procede sovrapponendo al sassofono solista uno per volta altri “se stesso” elettronici, fino a un totale di otto voci-alter ego che in circa 11 minuti giocano sul contrasto tra tutte le possibilità timbriche di uno strumento ad ancia, combinate a intervalli brevi (tono o semitono) e ampissimi salti discendenti su un La sub basso che evoca ancora una volta il bordone (tumbu) delle launeddas.

Flauneddasax, suddivisa in sei sezioni, intrattiene un rapporto più esplicito tra le tre entità storico-musicali della poetica di Garau, con flauto e sassofono che “ruotano” attorno alle launeddas, producendo un contrappunto ricco di spunti canonici la cui singolare timbrica ligneo-metallica promette di evocare, in base alla collocazione degli ascoltatori in rapporto agli esecutori, una specie di “fantasma” acusmatico; nella prima esecuzione del brano le stesse launeddas sono presenti virtualmente, sotto forma di esecuzione videoregistrata che funge da eredità sonora immanente rispetto agli altri due strumenti che suonano dal vivo.

 

\NOTE
[1] Su Oppo cfr. Gian Nicola Spanu, “Conversazione con Franco Oppo”, in Franco Oppo. Musiche per pianoforte solo e con strumenti, a cura di Mario Carraro, Stefano Melis, Gian Nicola Spanu, Fondazione Banco di Sardegna, Comune di Nuoro – Assessorato alle Politiche Educative, CERM Ensemble, s.l., 2004, pp. 4-64; Antonio Trudu, Franco Oppo: il musicista organico, «Insula» n. 6 (2009), pp. 93-120; Consuelo Giglio, Franco Oppo. Nuova musica dalla Sardegna, Palermo, L’Epos, 2001.
[2] Franco Oppo, Il sistema dei cunzertus nelle launeddas, in Sonos. Strumenti della musica popolare Sarda, a cura di Gian Nicola Spanu, Nuoro, Ilisso, 1994, pp. 156-161. Sulle launeddas cfr. anche Giulio Fara, Sulla musica popolare in
Sardegna, a cura di G. N. Spanu, Nuoro, Ilisso, 1997; Andreas F.W. Benzon, Launeddas, Cagliari, Iscandula, 2002; Efisio Melis, Gavino de Lunas e Antonio Pisano, Les launeddas en Sardaigne, a cura di Roberto Leydi e Pietro Sassu,
cd, Silex-Cedex, 1994; Launeddas. Efisio Melis e Antonio Lara, a cura di Pietro Sassu, cd, San Germano, Robi Droli, 1995; Launeddas. La storia, lo strumento, i protagonisti, la discografia, a cura di Giampaolo Lallai, ssociazione Culturale “Cuncordia a launeddas”, Cagliari-Nuoro, AM&D-ISRE, 1997.
[3] Cfr. Eric Drott, Conlon Nancarrow and the Technological Sublime, «American Music» XXII/4 (2004), pp. 533-563; Kyle Gann, The Music of Conlon Nancarrow, Cambridge, Cambridge University Press, 2006.
[4] Nel 1992 l’esecuzione di Canoni richiedeva un registratore analogico a 8 tracce (piuttosto costoso all’epoca, nell’ordine di un paio di stipendi mensili di docente dell’epoca) con l’aggiunta (a sua volta onerosa) di un anello di nastro magnetico di circa 34 metri per la prima parte, un registratore a due tracce (con cambio di velocità) e un altro anello di 34 metri per la seconda, quindi un registratore a 8 tracce, con un anello di circa 8 metri, per la terza parte.
[5] Si tratta del dispositivo Mars, realizzato a cura di Giuseppe Di Giugno presso il centro di ricerca IRIS della Bontempi-Farfisa, nelle Marche; per ulteriori informazioni cfr. il Museo del Synt Marchigiano www.museodelsynth.org

*\Carlo Fiore